Ti piace Tirana?

Il termine che sento più spesso, quando un italiano descrive Tirana, è contraddizioni. È una semplificazione, forse ormai un luogo comune che mette al riparo dalla possibilità di offendere l’interlocutore albanese che pone la domanda più difficile di tutte, almeno per chi in questa città ci vive senza essere un imprenditore, o più semplicemente un ricco straniero:

Ti piace Tirana?

Non è facile rispondere. Di solito mi trincero dietro un generico – e neanche troppo falso – “se ci abito da due anni e mezzo qualcosa vuol dire”, ma dietro ad una frase che chiude le porte ad ogni approfondimento c’è tanto, c’è un mondo intero.

È un mondo fatto di routine, la stessa che avrei se fossi rimasta a Torino, di piccole gioie quotidiane e di enormi incazzature. Quando una città la vivi senza il comfort a basso prezzo (basso, s’intende, per gli standard italiani) delle corse in taxi a pochi euro, di serate nel glamour europeo di Taiwan, di caffè nei bar trendy del Bllok e di abbonamenti nella palestra dell’Hotel Sheraton, quando diventi un tironso ma non del tutto, la prospettiva ha una quantità infinita di sfaccettature.

Non potrò mai commentare la vita politica di questo Paese sottolineandone le differenze con ciò che accade in Italia, semplicemente perché di differenze ce n’è poche: clientelismo, corruzione, oppressione delle classi meno agiate e favoritismi verso i businessmen più rampanti e privi di scrupoli sono, da questa come dall’altra parte del mare, la norma.

Non potrò mai annuire a chi, con una vena di ironia che è quasi una maschera, afferma che “gli albanesi sono… gli italiani invece…” perché, e qui mi immergo fino ai gomiti nell’ovvietà, non esistono categorie che possano abbracciare un intero popolo.

Ci sono tante similitudini e altrettante differenze, e fa sorridere confrontare le esperienze con chi si trova dall’altra parte dello specchio, con gli albanesi che guardano all’Italia e agli italiani come io guardo all’Albania e agli albanesi; ma senza un approfondimento, sono solo parole.

Ho sentito troppo spesso rampanti connazionali offendere questo Paese per quelle contraddizioni che esistono in ogni angolo del mondo, come mi sono spesso morsa la lingua – che noi torinesi, si sa, siam falsi e cortesi – quando persone piu’ o meno vicine hanno insinuato che fosse la mia nazionalità, e non le capacità, ad avermi fatto ottenere un’assunzione.

Tirana non è una città facile, e dipingerla alla stregua di una capitale europea è una mistificazione. Questo è un caotico e per molti versi bello e piacevole agglomerato di case antiche e inguardabili grattacieli, di boutique di lusso e di anziane che vendono, sindaco e polizia municipale permettendo, i prodotti dei loro orti sui marciapiede.

Di cani randagi che si nutrono di avanzi grazie a quella parte della comunità rom che sopravvive raccogliendo la plastica dai cassonetti, anche qui polizia municipale permettendo.

Ma è anche la città in cui cammino da sola la sera senza aver paura, in cui il respiro internazionale non è terminologia vuota ma una realtà quotidiana fatta di tutte le persone che hanno vissuto all’estero, ci hanno studiato, hanno viaggiato nonostante le difficoltà nell’ottenere i visti.

Sono le persone con cui posso andare oltre le frasi fatte, con cui non devo preoccuparmi che una critica venga percepita come un’offesa verso l’Albania e l’albanesità a 360°; sono quelle che troppo spesso cercano e trovano opportunità all’estero, perché la cultura dell’emigrazione rende una scelta del genere una possibilità concreta per la maggior parte di loro.

Sono quelli che, se scelgono l’Italia come meta, mi fanno avvertire una sorta di ansia da prestazione: spero che il Paese da cui vengo li tratti con gentilezza, gli permetta di vivere esperienze positive, li faccia sentire a casa e percepisca il loro essere stranieri come una ricchezza, non una mancanza o qualcosa di cui vergognarsi.

Spero anche che al loro ritorno portino con sé tanti nuovi spunti di riflessione, e che mi aiutino a guardare l’Italia da prospettive differenti, quelle prospettive che chi nasce e cresce in un luogo spesso non vede.

Ma la speranza più grande è che tornino per cambiare questo Paese strano, difficile, contraddittorio ma profondamente affascinante.

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